La Casa delle Erbe è un appellativo troppo stringente per descrivere la realtà che rappresenta; il casolare, posizionato alla fine (o all’inizio in base al modo in cui vi si accede) è solo una parte di un percorso articolato che porta alla conoscenza di piante, profumi, sottobosco, pietre, fiori e agrumi.
Il tutto, nella complessità discreta di un paesaggio composito: orto, frutteto, agrumeto, canneto e tutta una fantasmagoria di colture e scenari differenti che si aprono senza un evidente disegno a configurare quello che Marò D’Agostino, creatrice della casa delle Erbe, definisce ”il giardino calabrese”.
La posizione del terreno e l’orientamento spaziale ne fanno già un luogo magico: da un lato il borgo di Antonimina, dagli altri due la fiumara e il ruscello e il Monte Tre Pizzi, talmente vicino da percepirne l’altezza.
La cura dedicata alle piante è gentile e creativa:
“le osservo, le ascolto; con loro definiamo, per così dire di comune accordo, le forma, le suggestioni sensoriali e perfino le attività e i raccolti da fare; sono le piante stesse a suggerirli”.
É forse questo che restituisce a questo luogo un senso immutato di spontaneità, oltre a conservarne la biodiversità dovuta al particolarissimo microclima di questa vallata incantata.
L’approccio utilizzato per portare a nuova vita questo luogo, per anni abbandonato, è stato quello della memoria; sono state rivitalizzate le piante già esistenti e con esse ripreso e condiviso l’utilizzo delle proprietà curative, estetiche e creative.
Nel caso degli inserimenti di nuove specie, attraverso studi botanici si è cercato di inserire piante che non andassero in contrasto tra loro, che creassero quel clima armonico e rispettoso che il luogo esprime in ogni forma. Ogni pianta, dagli alberi agli arbusti, alle erbe coltivate, a quelle spontanee - che qui hanno un posto privilegiato- ha una sua funzione e collabora, insieme alla fauna, all’acqua e al clima, ad un ecosistema unico e provvidenziale per il benessere dei fruitori.
Si passa pertanto da un ambiente coltivato a rose antiche, ad un giardino secco che ospita piante autoctone e nuovi innesti. L’elemento preponderante è l’equilibrio; ad un occhio non esperto è impossibile riconoscere le nuove specie e distinguerle da quelle cresciute qui da decenni. La logica dell’integrazione è riuscita perfettamente.
Proseguendo si arriva ad un terzo habitat, dove è immediato il cambiamento del microclima, che diventa più umido: un bosco in miniatura dove rifugiarsi dalla calura. Qui, scendendo qualche gradino creato con le grandi pietre del fiume, si costeggia un ruscello incorniciato da rigogliosi lentischi dalle bacche rosse.
Continuando lungo il cammino incrociamo cortecce che sembrano sculture.
“Si tende a eliminare dai giardini ogni materiale che non risponda ad un'idea utilitaristica e confezionata dell’elemento vegetale. Liberando la visione della natura dalle sovrastrutture mentali con cui guardiamo il mondo, ogni elemento considerato di scarto può rivelare una sorpresa, una bellezza inedita.
Quella corteccia qui è una scultura creata nella connessione profonda tra la natura e il giardiniere; un’opera d’arte che nel contesto in cui è inserita non produce scarti ma visioni”.
In ogni frase di Marò si legge il suo essere artista, oltre che architetto. Si arriva così ad un punto in cui il terreno assume la pendenza di un anfiteatro naturale: ai vertici di questo lembo di terra, su un’asse visivo si trovano, in prossimità, due enormi pietre posizionate a specchio; sull’altro asse, in lontananza ma potenti, ecco il Tre Pizzi e un grande masso roccioso detto “a Petra da Morti”.
Il percorso continua arrivando ad un terreno coltivato ad agrumeto, costeggiato da “biveri” costruiti nel dopoguerra e ora dismessi, utilizzati in precedenza per portare acqua ai terreni. Da qui, inizia a scorgersi il casolare principale, risalente a fine ’800.
La realizzazione del progetto ha praticamente salvaguardato la tipologia, oramai in totale estinzione, di casa colonica non residenziale con interventi di rifunzionalizzazione che la proprietaria/progettista ha segnalato in malte bianche per distinguerli dalla pietra della costruzione originaria.
Tutt’intorno al casolare vi sono coltivazioni di agrumi e piante da frutta tropicali e antiche; tra loro si fanno spazio i rosai, elementi costanti di questo luogo, con i loro fiori presenti in svariate tonalità e sfumature anche in pieno inverno.
Alla Casa delle Erbe ci si sente ospiti privilegiati perché “se sei arrivata qui, vuol dire che abbiamo qualcosa da raccontarci, da donarci”. Marò considera questo un luogo d’accoglienza, proprio come avviene per l’inclusione delle piante.
Dal 2017, anno di costituzione dell’associazione, sono stati fatti incontri, concerti, happening, laboratori e seminari per bambini, ragazzi e adulti e, a maggio, la festa delle rose. La promozione del “saper fare” resta uno dei propositi di Marò e dei suoi collaboratori. Imparare da chi sa, mantenere i valori della memoria e della tradizione, approfondirli e onorarli in chiave autentica e sempre aderente ai linguaggi del presente.
L’interazione e il legame tra costruito e naturale crea una continuità, che è forse la chiave di lettura di questo luogo: il vivere coesistendo, la ricerca dell’equilibrio nelle differenze, la temperanza e il rispetto reciproco. La Casa delle Erbe, nella Locride, ci insegna che un altro modo di esistere è possibile.
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